Alla scoperta del mito
La provocazione di un racconto sorretto da una logica non binaria
Jean Pierre Vernant, Mito, Treccani, Roma 2021.
«Il mito non dice “un’altra cosa”, ma proprio quella cosa che, in nessun caso può essere detta diversamente» (p. 61). È forse questo il fulcro dell’istruttivo volumetto col quale Jean-Pierre Vernant, noto studioso della mitologia greca, dopo aver percorso in lungo e in largo questo singolare mondo, ne tenta una sorta di “definizione” sintetica. Sarebbe del tutto riduttivo considerare questo saggio, come potrebbe far presumere l’essere edito da Treccani, una semplice “voce” di dizionario. Esso al contrario è un vero e proprio focus sul mito, che qui viene esplorato in alcune sue sfaccettature decisive, tentando di scorgerne l’essenza profonda al di la della marginalizzazione che esso subì dopo l’imporsi dell’illuminismo. Fino ad essere considerato come una sorta di narrazione ingenua, frutto di una “superstizione” del tutto disancorata da quella “razionalità” che, di ogni discorso rigorosamente o presuntamente scientifico, va indiscutibilmente assunto come stella polare.
È certamente per questa ragione che il saggio di Vernant si concentra immediatamente sul rapporto tra mythos (racconto) e logos (discorso), segnalando come in Grecia essi, perlomeno in origine, non vennero assolutamente pensati come alternativi e men che meno come contrapposti. Soltanto tra l’VIII e il IV secolo avanti Cristo cominciò a registrarsi tra essi una tensione gradualmente destinata destinata a sfociare in una sempre più manifesta opposizione. A determinare questo cambiamento fu innanzitutto il passaggio dalla tradizione orale alla scrittura. Un passaggio che non assunse però la forma di una semplice trasposizione, ma si configurò invece come l’emergere di un inedito discorso ragionato, destinato a evidenziare marcatamente «lo scarto tra la dimostrazione argomentata e la trama narrativa del racconto mitico» (pp. 32-33). Fu così dunque che il logos, rinunciando gradualmente al drammatico e al meraviglioso impliciti al mito, si propose di enunciare la verità, stabilita con scrupolose disamine, servendosi di un’esposizione puntata sul rigore e sottratta ad ogni suggestione “mitica”. .
Questo cambio di passo si registrò soprattutto sul terreno della storia, che vide Tucidide spogliare la sua narrazione di ogni elemento fantastico, prendendo per un verso le distanze da Erodoto e ponendo per l’altro le basi dell’analoga tensione che tre secoli più tardi avrebbe visto Polibio contrapporsi a Filarco. Lo scarto tra logos e mythos si sarebbe però trasformato quasi in uno iato sul piano della filosofia: Platone contrappone infatti il “discorso veridico” di quest’ultima alle “favole per le vecchiette” del primo; analogamente Aristotele, dal canto suo, rimarca invece a dover essere ascoltati siano coloro che parlano dimostrando, senza dar troppo peso alle antiche escogitazioni mitologiche. Paradossalmente tuttavia, la forza resiliente del mito si sarebbe manifestata con forza nella sua capacità di sedurre i filosofi stessi: Platone infatti «nelle sue opere riserverà un posto eminente al mito e come mezzo per esprimere simultaneamente ciò che è al di là e ciò che è al di qua del linguaggio propriamente filosofico» (p. 57); analogamente Aristotele non esiterà a rivelare come la filosofia possa essere considerata come «un tentativo di formulare, demitizzandola, quella verità che il mito già presentiva a suo modo ed esprimeva sotto forma di racconti allegorici» (p. 58).
Il tentativo di esorcizzazione il mythos in nome del logos, determinatosi nella storia dell’Occidente a partire dall’insorgere della filosofia e riattualizzato dalla prospettiva razionalizzante moderna, non sembra però aver avuto successo. Il pur insolito carattere sconcertante dei racconti mitici continua infatti inesorabilmente a imporsi per la loro sintonica vicinanza all’universo mentale dell’Occidente stesso. Ed è proprio la presa d’atto di questa vicinanza, registrata soprattutto da antropologi ed etnologi a determinare l’insorgere a cavallo tra Ottocento e Novecento di una, pur articolata ed ancora abbozzata, scienza dei miti. Questa scienza mosse i suoi primi passi approdando ad un’individuazione nel mito come «stadio selvaggio del pensiero» (p. 70), il cui rimarcato aspetto pre-logico vide perdere almeno parte della sua negatività laddove si comincerà a parlare di esso in termini di una «metafisica selvaggia» (p. 72) non più limitata al mondo della Grecia antica, ma comune invece al pensiero primitivo dell’intero pianeta. Non fu però sufficiente nemmeno questo primo tentativo categorizzante, destinato a tradursi una mappatura sistematica dei miti, a strappare il mythos alla sua subalternità al logos: esso continuerà infatti ad essere pensato come qualcosa di cui occorre chiarire l’origine, che deve essere legittimato rispetto al logos e che, in ultimo, deve essere ricondotto ad esso.
La successiva riabilitazione del mito passò per il suo ripensamento come simbolo. È in questo senso che esso risulterà capace di far affiorare, superando i limiti del concetto e sfuggendo alle categorie dell’intelletto, quella dimensione di totalità e di infinitezza che nell’esistenza umana inevitabilmente si palesa. Nell’orizzonte di questa rilettura, pur articolata in forme per nulla omogenee, il mito – inteso ormai come racconto leggendario non più esclusivamente legato al mondo greco – cominciò ad essere riconsiderato: strappato al suo riduttivo essere pensato come «fantasia individuale e gioco gratuito dell’immaginazione», si trasformò in espressione particolare del «sistema istituzionale e mentale» (p. 99). Ed è in questa prospettiva che la sua esplorazione procedette lungo due linee sostanziali: quella, proposta da Levi-Strauss, di una sua decodificazione disinteressata ad una sua comprensione; e quella invece, avanzata da Ricoeur, tutta puntata sulla necessità di una sua comprensione come forma di sapere in grado di integrare il sapere stesso del logos, di fatto incapace di esprimere l’antropologico nella sua pienezza. Ed è forse proprio in questo che il mito – conclude Vernant – evidenzierà la propria specifica peculiarità: attivare, andando oltre la logica «della binarità, del sì e del no» (p. 125), una forma di logica diversa dalla logica del logos, Quella di cui oggi sembriamo essere, tutti, sempre più prigionieri.
Piergiuseppe Bernardi – ©raccontamiancora.it