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Come lo Spirito di Elohim divenne maschio

L’ombra del patriarcato su una curiosa trasformazione lessicale?

«L’egemonia maschile nell’ordine patriarcale – scriveva nel 1973 Eric Fromm, il ben noto autore di quell’Avere od Essere destinato a divenire una bandiera del contrasto al nascente consumismo – dura da circa sei o settemila anni ed è ancora il modulo prevalente nei paesi più poveri come tra le classi meno abbienti della società. È però in lenta diminuzione nelle società opulente».  Certo, a rileggerla oggi, questa frase induce a ritenere che Fromm, tenuto conto che ancora ai nostri giorni sia i paesi ricchi che le classi più abbienti sembrano faticare parecchio a sottrarsi del tutto al paradigma che egli già cinquant’anni fa pensava essere in fase di superamento, sia stato davvero troppo ottimista. Ma non è su questa strada che vogliamo inoltrarci. Ad interessarci qui è invece, proprio nell’orizzonte dell’ordine “patriarcale”, la vicenda di una trasformazione lessicale che, radicandosi proprio nel mondo del mito ebraico, ne ha riorientato la comprensione in una forma volta proprio a escluderne ogni dimensione femminile. Quasi che quest’ultima andasse considerata come un’intollerabile dissonanza rispetto a un “ordine maschile” da tutelare ad ogni costo.

L’inizio della vicenda di cui intendiamo parlare è talmente remoto da coincidere addirittura con il momento stesso nel quale, secondo uno dei due racconti   ebraici confluiti nel libro biblico che oggi conosciamo come Genesi, «Elohim creò il cielo e la terra» (Gn 1, 1). È in quel momento infatti che il nostro racconto, nel segnalare il tratto originariamente caotico del cielo e della terra creati da Elohim, rileva come quest’ultima fosse «informe e deserta» (Gn 1, 2) e come essa fosse quasi completamente avvolta da impenetrabili tenebre. E, siccome nessuno – al di fuori forse degli angeli (Gb 38, 7) – assistette a questo momento, il tono assunto dal racconto sembra quasi volerci suggerire che a percepire così la terra appena creata fu proprio Elohim, e dunque il protagonista stesso di quell’opera. E se Elohim avrebbe ben presto provveduto a trasformare quel caotico magma in un autentico capolavoro, già fin da subito qualcosa segnalava come esso non fosse affatto abbandonato a sé stesso. Su quelle acque, irriducibilmente mescolate con dell’argilla fangosa, ad aleggiare era niente meno che «il respiro di Elohim» (Gen 1, 2): e dunque ciò che di Elohim esprimeva l’aspetto più vitale.

La parola ebraica con cui il libro di Genesi indica lo spirito di Elohim aleggiare sulle acque è ruach. Una parola avvolta nel mistero forse a causa di ciò che ordinariamente indicava: e cioè il vento, «la cosa – per dirla con Melville – più inafferrabile che esista». La parola ruach tuttavia, pur essendo utilizzata per indicare il vento, racchiude nel suo stesso risuonare un significato ulteriore. Ed è questo significato a spiegare perché il libro di Genesi usi proprio questo termine laddove, connotando la terra appena creata da Elohim come «informe e deserta», ne lascia intravvedere la futura trasformazione. Non è certo un caso il fatto che, ad aleggiare sull’oscurità che avvolgeva queste acque fangose, sia stato posto il “respiro” del creatore stesso: e dunque il ruach Elohim (ר֣וּחַ אֱלֹהִ֔ים).  Questo “respiro”, tuttavia, visto che ruach in ebraico è una parola rigorosamente femminile, andrà pensato come autenticamente “femminile”.  Cosa che peraltro, se si pensa a questa ruach nella fertilità intrinseca propria del femminile, chiarisce anche la ragione del suo essere chiamata, fin nell’immediato della creazione di Elohim, a svolgere un ruolo chiave nel condurla da uno stato di originaria indeterminatezza a quello di una stupefacente ed assoluta perfezione. 

 Questo tratto “femminile” della ruach Elohim è qualcosa che è andato del tutto perso nella traduzione greca della Bibbia ebraica conosciuta come Bibbia dei Settanta: una versione che, avviata nella prima metà del III secolo a.C., fu determinata dal graduale diffondersi della cultura ellenistica in tutta l’area del Mediterraneo e dalla necessità per gli stessi ebrei che abitavano fuori della Palestina di poter contare su una Bibbia scritta nella lingua che essi utilizzavano quotidianamente. Ed è proprio in questa prima versione della Bibbia in greco, non a caso avvenuta proprio nella cosmopolita Alessandria d’Egitto, che si registra un significativo mutamento di genere della parola ruach. Quest’ultima infatti, di genere “femminile”, viene tradotta con il termine greco pneuma (πνεῦμα), di genere invece “neutro”. Difficile dire se questo passaggio dal “femminile” al “neutro” sia mosso da un’intenzionalità consapevolmente “patriarcale”. È nei fatti però che, con esso, a prendere il via è una sorta di processo di estromissione dalla figura di Elohim di qualsivoglia elemento capace di evocare la femminilità.

 Se in origine il tratto rigorosamente “maschile” di Elohim appariva animato da un respiro dichiaratamente “femminile”, con la Bibbia greca dei Settanta la situazione cambia significativamente: il connotarsi “maschile” di Elohim, privato di ogni contrappunto “femminile”, diviene l’elemento portante stesso della sua identità, ormai tutta orientata al “maschile” ed incapace di lasciar affiorare quel “femminile” che invece, originariamente, la ruach impediva di mettere semplicemente tra parentesi. Questo supposto processo di “mascolinizzazione” di Elohim non si fermerà però qui, assumendo un tratto ancora più radicale nella cosiddetta Vulgata: la traduzione cioè della Bibbia che, messa a punto nel IV secolo d.C. da Girolamo, sarebbe divenuta il testo ufficiale della Bibbia utilizzato dalla Chiesa occidentale per tutto il medioevo. Ora, proprio nella traduzione del primo capitolo di Genesi proposto dalla Vulgata si legge: «spiritus Dei ferebatur super aquas» (Gen. 1, 2). Una traduzione assolutamente fedele all’originale, salvo che per un particolare: la “femminile” ruach ebraica, già trapassata nel neutro pneuma greco, viene reso qui con il termine latino spiritus, di genere espressamente “maschile”. E, sebbene altrove Girolamo affermi che in realtà Dio trascenda ogni “genere” sessuale, il risultato qui appare una completa “mascolinizzazione” di Elohim, la cui “femminilità” – originariamente visibile proprio nella sua ruach – viene così definitivamente oscurata dall’imporsi, questa volta tutto “maschile”, dello spiritus Dei. Il cui irriducibile elemento femminile – quasi come una nemesi – sarebbe però continuato a riaffiorare nella rappresentazione di questo stesso spirito in forma di colomba sia sul piano teologico che su quello iconografico.

Piergiuseppe Bernardi – © raccontamiancora.it