… e le storie
Sulle tracce del fascino originario delle “storie senza tempo”
La prospettiva inaugurata dagli illuministi, tutta mirata a trasformare la storia in scienza, ha come suo inevitabile corollario una verifica dell’autenticità delle fonti capace di stabilire la verità effettiva dei fatti storici che essa è chiamata ad accertare ed esaminare nell’effettività dei sui dettagli. Del resto, come spiega Voltaire, «la storia deve essere scritta con l’unico obiettivo della verità». Ed è proprio nell’orizzonte di questa assunzione della ricerca della verità come criterio di disanima della storia che viene profilandosi, di fatto come un suo necessario corollario, l’espulsione da essa di tutto ciò che storia non è: miti, leggende, favole… A profilarsi è dunque è una sorta di esigenza di rimozione dalla storia di quel che in essa non è riconducibile al vero, ma altro non è che una mera incrostazione. Un’esigenza che sempre Voltaire non esiterà a trasformare in una effettiva istanza programmatica: «Dobbiamo demistificare la storia, estirpando i miti e facendo spazio alla verità fattuale».
Voltaire aveva ben chiaro che la storia, privata di miti e leggende, si sarebbe inevitabilmente ridotta ad essere «il quadro dei crimini e delle sventure» umane. E tuttavia, per lui, solo questo processo di ripensamento della storia avrebbe consentito di promuovere un futuro finalmente libero dalla superstizione e animato dalla ragione. Di questo non era però affatto convinto Goethe: «Anche se voi foste in grado di interpretare e di esaminare tutte le fonti, che cosa trovereste? Niente altro che una grande verità, che è stata scoperta da gran tempo e di cui non occorre cercare la conferma: la verità cioè che in ogni tempo e in ogni luogo la condizione umana è stata miserabile. Gli uomini sono stati sempre preoccupati e angosciati, si sono tormentati e torturati reciprocamente, hanno reso difficile a sé ed agli altri quel po’ di vita loro concesso e non sono stati capaci di apprezzare e godere la bellezza del mondo e la dolcezza dell’esistenza loro offerta da quella bellezza». Rimuovere miti e leggende dunque, considerate come espressioni profonde delle verità universali e delle esperienze umane e come occasione per godere della bellezza del mondo, non appariva così per nulla, agli occhi di Goethe, una buona idea.
Lo sviluppo della storia, successivo alla puntualizzazione messa in atto a suo riguardo dagli illuministi, si sarebbe mosso lungo la strada da loro indicata: l’unica del resto in grado di fare della storia una disciplina autenticamente scientifica e mossa da criteri rigorosamente razionali. Il disegno originario di Voltaire tuttavia, proprio per quanto riguarda il suo intento di demistificare la storia estirpando da essa i miti e leggende, fu in seguito riveduto e corretto, non senza che forse su questo abbia pesato la prospettiva di Goethe e del romanticismo. Miti e leggende cioè, considerati non tanto come menzogne volte ad alterare la verità dei fatti quanto piuttosto come espressioni creative delle società e degli uomini da cui erano scaturite, tornarono ben presto a giocare un loro significativo ruolo nella ricerca storica. Certo questo non significò affatto tornare a considerare miti e leggende, posto che mai essi siano stati considerati tali, come “veri” al pari dei “fatti” che costituiscono la storia umana. Ad essere valorizzata fu invece la loro valenza in ordine alla comprensione di un sociale nel quale i “fatti” sono ovviamente importanti, ma altrettanto decisivi risultano essere gli “immaginari” che da essi scaturiscono e in essi confluiscono.
Che cos’è un immaginario? Detto in modo sintetico, è l’insieme delle immagini, dei simboli, dei miti, delle idee e delle narrazioni collettive che una società condivide, utilizzandole da una parte per decifrare la propria esistenza e interpretare i “fatti” e dall’altra per far emergere e consolidare una propria precisa identità. E l’immaginario, come scrive Umberto Eco in una prospettiva del tutto certamente non coincidente con quella che animava gli illuministi, «non è affatto una fuga dalla realtà, ma una modalità attraverso cui la realtà stessa si arricchisce di significati e prospettive nuove». Ed ecco dunque la nostra epoca far registrare una nuova, e del tutto inattesa, attenzione per le narrazioni collettive cristallizzatesi nei secoli a partire da immaginari in continuo mutamento: siano esse miti, leggende, favole, fiabe, racconti popolari, esse vengono così nuovamente valorizzate in quanto ritenute essenziali a trasmettere nei secoli una memoria collettiva che, pur originatasi in contesti specifici e società determinate, ha di fatto assunto una valenza universale.
Ovviamente, l’illuminismo non è passato invano. È per questo che la valorizzazione e riconsiderazione di queste “storie”, nel nostro specifico contesto socio-culturale, ha assunto un tratto che, pur non riconducendole alla storia intesa in senso stretto, appare tuttavia improntato ad una scientificità di fondo. E che vede ormai queste narrazioni collettive studiate ed analizzate, limitandosi solo ad alcune delle discipline che se ne occupano, da archeologia e antropologia, filologia e narratologia, psicologia e sociologia. E tuttavia questa molteplicità di approcci, assolutamente decisivi nello scandagliare queste storie fino a farne emergere ogni più piccola sfumatura, rischia di smarrirne qualcosa di essenziale: il loro essere cioè il frutto, come sottolinea André Malraux di un «immaginario che è la voce di ciò che non può essere detto, la lingua dei silenzi e delle ombre che popolano il nostro mondo interiore». E sono forse proprio questa lingua, fatta di silenzio e d’ombra, quella che può continuare a narrarci di noi. Ad un’unica condizione: quella di riprendere ad ascoltare queste storie, lasciando che in esse torni a risuonare quell’immagine complessa dell’uomo che esse per secoli, e senza filtri, hanno continuato a raccontare.
Piergiuseppe Bernardi – © raccontamiancora.it